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lunedì 29 aprile 2013

La rivoluzione degli orti

A fine anni ottanta abbiamo avuto il gran gnao ovvero la gran fortuna di acquistare una casa/rudere da riattare con annesso un pezzo di terreno agricolo. La casa faceva parte di una vecchia cascina isolata in mezzo ad un bellissimo bosco, ormai abitata solo da un anziano signore credo muto (non l'ho mai sentito pronunciare verbo né saluto) che conviveva con due ENORMI pecore e tra le quali fu trovato morto un anno dopo. Ma la persona che conobbi e che per molti anni mi raccontò della campagna, della terra, dell'acqua, della pioggia e del tempo che scorre fu Dante. Che personaggio! Due piccoli occhi azzurrissimi, piccoli perché aver lavorato al sole, al freddo e al vento per tutta la vita fa stringere le palpebre, ti segna il viso e lucida la pelle come fosse conciata. Solo due grossi denti marci, perché dentista e dentiere ti aiutano a mangiare, si, ma a mangiare i soldi! Un grande cuore e una grande vita alle spalle, segnata dal periodo della Grande Guerra e dai suoi orrori, dall'essere stato attivista partigiano, dall'essere stato orgogliosamente l'unico ad aver preso un diploma a quei tempi e in quei luoghi. Avevano sempre qualcosa da raccontarmi lui e la moglie Irma. Amavano quel posto come se fosse stato quel figlio che non hanno mai avuto, muto e ingrato ma dentro i loro cuori. Dante e Irma ormai anziani dormivano nella casa bella, quella nuova giù in paese con il bagno e tutte le comodità, ma ogni mattina di ogni santo giorno, per tutto l'anno, alle otto arrivavano in cascina prima con una 126 Fiat, poi, quando gli è stata ritirata la patente non so bene perché, con un Sulky e poi ancora quando i nipoti non gli permisero più di usare neanche quello, a piedi. Lì  rimanevano fino al calar del sole: accudivano alle poche galline, conigli e caprette. Lavoravano nella vigna e nei campi di granoturco. Curavano l'orto, pranzavano e cenavano con quello che raccoglievano e non si lamentavano di quella vita fatta di ritmi, stagioni, fatica e storie antiche. Dante mi raccontò la storia di quella casa, nata isolata in mezzo al bosco per sfuggire all'ondata di peste e alle razzie di francesi e spagnoli del 1600 e su una facciata un dipinto dedicato alla Vergine Maria, ormai quasi invisibile e degradato testimonia la riconoscenza di quei primi abitanti sfuggiti al contagio e alla morte... E Irma mi offrì il primo caffè del buon vicinato, chiedendomi nel suo dialetto incomprensibile, quanto zucchero volessi. Io solitamente bevo caffè macchiato con un poco di latte freddo  e a questa mia affermazione Irma rise di gusto dicendomi che il latte c'era, ma non tanto freddo e fece segno di seguirla. Io, faccia ebete e tazzina in mano, la seguii nella stalla e mi ritrovai con la mammella della capretta che sprizzava latte salatissimo e caldo direttamente nel caffè e sulle mie mani: il peggior caffè di tutta la mia vita che comunque trangugiai per ricambiare la loro rude cortesia...chiaro che da allora non ho più chiesto latte a Irma.
Dante otto anni fa è morto e un'Irma inebetita dalla solitudine e senza più la cascina di tutta la vita ha finito i suoi giorni due anni fa, rinchiusa in una casa di riposo dove non pronunciò più neanche il suo dialetto incomprensibile. Di loro mi rimane questo modo di fare le cose senza nessuno spreco, con un'umiltà rara per chi nasce e cresce in città, con il senso della sopravvivenza chiaro davanti agli occhi: si tira avanti prendendosi cura ogni minuto di quello che sta intorno: la terra, gli animali, le persone, l'acqua, la casa, il cibo. Mi rimane la loro semplicità e la capacità di condividere. Mi rimane l'esempio di chi per una vita intera non è mai entrato in un supermercato: persone d'altri tempi, pionieri inconsapevoli di una tendenza che farà strada, depositari di quella sapienza contadina che, nella cura dei fossati e dei terreni, nella tutela dei boschi, nella gestione delle acque, nel ponderato utilizzo delle risorse, ha saputo trasmettere immagini tali da fare della nostra penisola, fino agli anni settanta, "il giardino d'Europa".
Ora è tempo di recuperare, di reagire, di riportare in vita il nostro vecchio sapere che, stupidamente, abbiamo accantonato, ora è tempo di vivere senza ostentazione la silenziosa rivoluzione degli orti.

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